Ma ci saranno le ciambelle fritte in Sardegna? -ho pensato.
Ma l’ho pensato inutilmente, che si sa che le ciambelle fritte si trovano ovunque: dal bar degli agricoltori sulla strada traversa dalla Palombarese, fino addirittura in Grecia. Ecco in Grecia!
Ma il punto è un altro. Il punto è: “Ci saranno le ciambelle fritte, anche in Sardegna?”
Allora mi imbarco, sbarco e verifico.
E scopro che in Sardegna nella strada che da Alghero scende verso Sant’Antioco esiste uno scoglio che i sardi chiamano addirittura Pan di Zucchero: nel mio immaginario potrebbe trattarsi di una ciambella fritta e invece no.
Il Pan di Zucchero, assomiglia piuttosto ad un canino: un gran canino ben radicato sul fondo del mare e così tanto aguzzo sulla sommità, da ricordarmi piuttosto il canino di mio nonno perfettamente conservato nell’ultimo cassetto del mobile svedese, che al tempo non era ancora Ikea pur tuttavia svedese si.
Mio nonno mi diceva che si trattava del canino di uno squalo, e invece no. Era il suo: perfettamente uguale al Pan di Zucchero di fronte le spiagge di Masua. Chissà se mio nonno lo sapeva che il suo canino, più che somigliare a quello di uno squalo, era identico ad uno scoglio sardo?
Ma il punto è un altro: il punto è che il Pan di Zucchero non solo non è una ciambella e neanche un canino come quello di mio nonno, ma uno scoglio. E io per scoprirlo son dovuta sbarcare in Sardegna, che in Grecia non l’avrei scoperto mai.
Iglesiente
Così una mattina dopo esserci addormentati a Masua di fronte al mare, ci siam svegliati in tre: io, lui e il Pan di Zucchero.
E in effetti non eravamo proprio da soli, che c’è tanta gente che Masua attrae per la sua particolare insenatura, col porticciolo di lato adatto ad una gara di tuffi a oltranza prima che arrivi la pausa di una ciambella fritta, magari, al posto del solito “cocco bello” da spiaggia.
Ad ogni modo io sento un’attrazione particolare, più che per il piccolo porticciolo alla mia destra, per l’altro porto quello col nome di donna, scavato nella roccia (1922-1924), a 38 metri di altezza sul mare.
Si tratta di Porto Flavia, un “balcone” medioevale, intagliato sulla sommità di una parete rocciosa a picco sul mare, per facilitare le operazioni di carico e scarico di tutti i materiali estratti dalla miniera.
In una fiaba, lo scenario di porto Flavia, sarebbe perfetto per raccontare la storia bella di una principessa con i capelli così lunghi da poter issare sulla torre qualche marinaio di suo gradimento purché arrampicatore provetto e disposto a tirare i remi in barca per vivere “felici e contenti” come in tutte le fiabe della mia infanzia. Ecco.
E invece no. La storia è triste e a suo modo si ‘limita’ a mostrare senza veli la verità nuda e cruda di tutta questa parete rocciosa di costa e dei suoi abitanti, i minatori.
Enrico è il nostro chiudi fila, ascoltare lui è più coinvolgente di quanto riesca a fare la guida che è già una ‘sala’ più avanti di noi. Lui, minatore per 22 anni, minatore come suo fratello, suo padre e suo nonno, ci racconta l’aspetto lesivo sul corpo umano di molti macchinari ancora esposti nella miniera. Di quanto sia ustionante sulla pelle la polvere prodotta da una T21. Di quanto sia difficile restare vivi fuori dalla miniera anche se non ci si muore dentro. Di quando sia complicato mangiare tutti i mesi con 300 mila lire lavorando 12 ore al giorno. È il 1983.
Ecco è questo lo scenario che è alle mie spalle, quelle di Enrico e di tutta una regione che ha fatto i conti con la povertà come fosse affar suo, come non vi fosse abbastanza Italia per tutti e cioè anche per la Sardegna.
Davanti a noi il paesaggio è di “una bellezza che fa male” come dice chi ama la retorica a tutti i costi, ma è pur vero che se oggi qualcuno mi chiedesse dove ho visto tanta bellezza e tanta tristezza incontrarsi, io gli indicherei proprio questo tratto di costa.
Quando arriva il momento di entrare in mare, a dispetto del maestrale che rende il mare ” biu ” e cioè vivo, ci dirigiamo verso il Pan di Zucchero per varcare la sua porta sul mare: si tratta di un’ insenatura alta e profonda come i portoni di ingresso di quei palazzi romani di epoca umbertina che sembrano abitati da giganti, tanto è alta la porta di accesso nella loro corte interna.
Ma la verità è che nel Pan di Zucchero non c’è una corte interna, c’è solo una via d’entrata che è anche la stessa d’uscita, ma è quanto basta per farci attraversare quello che dalla spiaggia sembra non solo un canino, un gran canino ben radicato sul fondo del mare, ma anche un antico totem.
Un totem: di quelli propiziatori che si aprono alla vista sul resto del orizzonte come una porta Santa sul resto della salvezza eterna.
Ci imbarchiamo alla ricerca di insenature e grotte per bagni ‘a perdi fiato’, come quelli di quando si è piccoli e si esauriscono le forze tutte insieme. Io ad esempio quando perdevo le forze, trovavo sempre un pezzo di pizza bianca da addentare, le forze tornavano tutte quante all’appello e la fame mi lasciava in pace per un po’.
Con una maschera e un boccaglio, oggi invece faccio a meno della pizza bianca, che mi basta galleggiare a seconda dell’ispirazione: supina come un corpo morto che fa il morto a galla; prona come un corpo vivo che fa il bagnante a galla.
In entrambi i casi compenso la stanchezza con la bellezza di quello vedo: ad esempio, la vita dei cefali vivi.
In Sardegna nascere cefalo è una bella fregatura, che qui se li mangiano e se li cucinano in tanti modi diversi: così quando galleggio prona sulla superficie di mare mi piace incontrarli da vivi, che da morti invece so già che fine fanno.
Come a Mari Ermi, dove un gruppo di ragazzi tutti molto simili a sardi e a Freddy Mercuri in concerto, quando indossa un mantello da super eroe con l’ombelico scoperto, ci ospitano gratuitamente a dormire nel loro parcheggio vista mare e noi in cambio di tanta gentilezza, la sera mangiamo nella loro taverna, una veranda di canne e paglia sul mare.
Qui tutto è suggestivo, tutto è alla griglia, soprattutto i cefali, e la musica è tutta Patt Garrett and Billy the Kid.
Ad ogni modo sulle rovine di Tharros, dietro la torre spagnola di San Giovanni, mi è capitato di nuotare in mezzo a Cefali vivi giganti, pur rimanendo vicino alla spiaggetta in cui la sabbia ha la grana dei chicchi di riso. Ecco io ad esempio i chicchi di riso al posto della sabbia non li avevo mai visti, come non avevo mai visto due volpi perfettamente addomesticate alla presenza dell’uomo.
Eppure in questa spiaggetta, dove un piccolo molo in legno è l’approdo per piccole imbarcazioni, è possibile giocare con la volpe come si farebbe col proprio cane; è possibile allo stesso tempo, camminare su una ghiaia madreperlacea della stessa grandezza del ‘vialone nano’; è possibile nuotare con cefali giganti come i Giganti d’età nuragica rinvenuti solo 15 anni fa sul sito archeologico di Cabras.
A questo proposito la guida ci ha spiegato che il ritrovamento di quei ‘giganti’ lì, che non sono cefali, riapre un capitolo di storia che non si dice conclusa, ma l’aspetto che più mi colpisce è il frammentismo del loro ritrovamento “come se qualcuno avesse voluto privarli della loro forza, prima di nasconderli ai posteri” – dice la guida.
Così dopo aver ringraziato i cefali vivi e le volpi addomesticate per l’inaspettata compagnia, ci spostiamo da Tharros e ci dirigiamo senza pensarci due volte a Cabras dove un abile restauro ha rimesso in piedi alcuni esemplari di giganti: e io mi innamoro del “pugilatore”.
Avrei preferito innamorarmi di un “arciere”, per chiudere il cerchio di una storia familiare che ha fatto sì che mio padre fosse arciere, mia madre lo fosse a sua volta e io per un pelo non feci in tempo a diventarlo. E invece no. Si vede che arco e frecce non fanno per me e sarà per questo che mi innamoro del pugilatore. Lo fisso a lungo, occhi negli occhi, chiedendogli in prestito la sua forza ora che è tornato in sè, gli chiedo di rendermi il favore che gli ha reso l’uomo moderno a rimetterlo in piedi. E mentre gli rivolgo le mie suppliche sui super poteri che tanto mi piacerebbe avere, anche solo per un giorno, penso all’infinito numero di persone tra me e lui che nel tempo si sono perse nei suoi occhi grandi e perfetti come cerchi di pane carasau.
Nel frattempo cefali ai ferri e tonno marinato sono protagonisti indiscussi insieme alle cozze di Arborea, di gustose cene a fine giornata anche se tutta la mia curiosità va alla preparazione domestica dei calurgiones e della fregola. Penso che prima o poi troverò un sardo che me ne parlerà.
Si tratta di ricette che mi fanno pensare al mio “gambero” preferito e a tutto quello che potrei condividere al mio rientro, ma poi il sapore della vacanza riprende il sopravvento e mi ritrovo già altrove.
Carloforte
“Devi assolutamente vedere Carloforte” mi ha detto Debora, all’inizio dell’estate. Io non sapevo bene cosa di tutta la Sardegna avrei visto e cosa no. Allora lei, davanti un buon gelato e cartina della Sardegna alla mano, mi ha indicato un tragitto imperdibile.
Cosi: “Devi assolutamente vedere Carloforte” – mi ha detto Debora e sorridendomi mi ha fatto capire che il resto l’avrei scoperto da sola.
Allora mi imbarco, sbarco e verifico. Che per vedere Carloforte è necessario sbarcare una seconda volta, sempre in Sardegna, sull’isola di San Pietro.
Bella Carloforte, anche se la sua particolarità è che qui i “sardi” parlano “genovese”, i cefali cedono il passo ai tonni e la focaccia genovese sostituisce il carasau. E forse è questa la sorpresa che i sorrisetti di Debora non hanno voluto anticiparmi, ma ad ogni modo aveva ragione sulla certezza che qui tutto mi sarebbe piaciuto!E qui, infatti, tutto mi piace: case, carruggi e carlofortini.
Ecco, riguardo a questi ultimi, dichiararsi “carlofortino” è la sintesi ideale per chi si sente molto sardo, ma anche molto genovese. Una definizione che concilia la geografia di genti di mare che ad un certo punto della storia si sono incontrate in un’identità molto precisa e singolare che si lascia captare dal modo in cui qui tutti parlano e si intendono. Chi non capisce il carlofortino non è carlofortino, c’è poco da fare.
“Ma ci saranno le ciambelle fritte a Carloforte?” – ho pensato.
Ma l’ho pensato inutilmente, che dopo averle cercate per tutta la Sardegna, a Carloforte nel frattempo mi è passata la voglia del dolce e mi è venuta quella del salato.
Forse la salsedine sui muri o quella nell’aria, la focaccia genovese è stata la colazione più salata verso cui mi sia mai spinta.
Buona e straunta, la focaccia, io l’ho trovata perfetta sotto l’ombra delle quattro magnolie giganti che delimitano la piazza centrale della città. Qui la gente si ritrova sulle panchine circolari facendo un gran vociare di cicale umane fino all’ora di pranzo, poi ė solo scirocco e odore di tonno dai carruggi.
E riguardo ai tonni, se in Sardegna nascere cefalo è una bella fregatura, che se li mangiano e se li cucinano in tanti modi diversi, a Carloforte la stessa cosa vale per i tonni.
Una cosa, poi, che ho capito leggendo il menù di un noto ristorante del posto è che qui il tonno non lo chiamano tonno e basta, ma c’è tutto un ventaglio di sinonimi e contrari come buzzonaglia, ventresca, musciamme e tarantello, per alludere sempre e comunque alla stessa entità suprema di tonno. Tonno, solo e sempre tonno. Parola d’ordine della città: tonno.
E per ricordarmi tutto questo immortalo un tonno inciso su una tavoletta proprio come farebbe una turista giapponese in visita a Roma, immortalando l’immagine della lupa incisa sul un bel travertino. Ecco.
La mattina seguente, riempito il gavone del camper di scatole di tonno di ogni genere e dieci piani di focaccia genovese, che – come dice mia madre: “non si sa mai!” – posso partire tranquilla. Ci imbarchiamo nuovamente. Anche questa volta, sempre per la Sardegna.
Torre Chia
Se viaggi su motoroom evitando accuratamente i campeggi organizzati, dormire è un avventura bella tanto quanto lo è il viaggiare. A Carloforte ad esempio, dormire è stato piacevole quanto sostare soprattutto se ci si ritrova a passare la notte nel punto più alto e ventilato della città, protetto all’interno delle mura storiche.
Anche dormire a Masua è stato suggestivo nel bel mezzo dell’archeologia industriale della miniera di porto Flavia.
A Torre Chia invece no. A Torre Chia per accedere in una delle più belle spiagge viste da queste parti, dobbiamo entrare in un campeggio.
I campeggi non ci piacciono mai abbastanza, li evitiamo accuratamente per non rischiare di rompere l’incanto di sentirci spartani e selvaggi come piace a noi.
Questa volta però penetriamo nella tendopoli fitta fitta e permanente di un campeggio, tra motoroom e roulotte così stanziali da ricreare l’illusione di una casa al mare per chi è fiero delle proprie abitudini e non sa perdere se stesso neanche un minuto. Ecco.
La vita vacanziera che mi si muove attorno è casalinga e invadente in ogni sua manifestazione: ci sono massaie in pareo a mo’ di grembiule che a 40 gradi all’ombra impastano gnocchi per pranzo; mentre la sera è possibile ammirare lo struscio in accappatoio di gentili signori in fila alle docce come fosse il ritrovo preferito di tutta la vita sociale di questa particolare ‘borghesia’ di bagnanti in micro fibra.
Io eviterei volentieri di imbattermi nel momento privato degli altri e per dileguarmi da mutande che non mi appartengono e carta igienica altrui a vista, mi trasferisco in spiaggia: e non quella presidiata dal bagnino dove puntare l’ombrellone richiede l’abilità di infilzare il prossimo tuo per espugnare la sua ombra. No!
Noi abbiamo capito che si trovano spiagge deserte bellissime, nella direzione opposta al chiosco dei gelati, 10 metri più in là dove finisce la passerella. Ecco con un minimo adattamento all’assenza di lettini e una spontanea asocialità, la conquista di una spiaggia deserta tutta per noi è assicurata.
Qui ci sono calette in cui si potrebbe sperimentare del sano nudismo senza scandalizzare nessuno, perché nessuno le abita. E proprio mentre mi illudo che nessuno mi vedrà, arriva Daniela.
“S’improddu”
Daniela è “Daniela la sarda”. Così mi è sempre capitato di sentirne parlare da Livio e Silvia che sono in viaggio con noi.
Noi e loro condividiamo l’estate con lo stesso spirito d’avventura, pur avendo inclinazioni e personalità molto diverse. Livio ad esempio quando non è il nostro Nostromo in mare aperto, cerusico e chef di brigata al contempo, ripassa tutte le sere la seconda guerra mondiale: fatti, antefatti e misfatti; cause, concause e conseguenze meglio dell’Istituto Luce.
Anche Silvia è unica nel suo genere, iperattiva da sempre prende in considerazione solo ciò è in perenne movimento. Quel che la fisica chiama “moto perpetuo” per tutti noi è Silvia: e infatti lei si muove e si muove. Perpetuamente. Si ferma ogni tanto, ma solo se risponde ad un telefono a cui parlare in cinese.
A loro si aggiunge il mio amato marito, ‘Russo’ di nome ma non di fatto. Di lui mi è già capitato di rivelare molto tra le righe, ma in vacanza la sua particolarità è di fare tutto. E tutto quello che io molto accuratamente evito di fare. Da qui si intende facilmente, forse, che dei quattro io sono quella immobile: una specie di soprammobile che per forza di cose non si muove, se non in rari momenti in cui appaio così assorta da dare l’idea che con la forza del pensiero io stia (addirittura!) scrivendo.
Ecco questi siamo noi così tolleranti gli uni verso gli altri da perdonarci gli irrinunciabili difetti-aspetti, ed è questo l’unico modo in cui riusciamo a condividere il tempo più prezioso per tutti, quello della vacanza.
A noi non ha tardato ad aggiungersi “Daniela la sarda” che in realtà già prima del suo arrivo, ha monitorato il nostro itinerario come uno spirito guida rivelandoci posti tranquilli dove poter sostare liberamente e indisturbati.
Di lei so poco, se non che l’unica volta che è passata per Roma è stata anche l’ultima: che non ce l’avrebbe fatta a vivere senza il blu del suo mare e tutte le stelle del suo cielo. Da allora è rimasta “Daniela la sarda”.
Mentre valuto se diventare nudista anche solo per un minuto, arriva Daniela.
Penso che Daniela oltre ad essere “Daniela la sarda” sia la sarda che stavo aspettando per intraprendere uno scambio culturale sui calurgiones e la fregola.
E infatti lei mi accontenta e mentre raccogliamo bacche di ginepro dalla macchia mediterranea che fa da bordura alle belle spiagge in cui facciamo il bagno, mi parla del suo “s’improddu”.
Dice che non è facile spiegare in italiano ciò che la lingua sarda rende alla perfezione: il s’improddu è un “miscuglio di cose” – dice, “ma è riduttivo parlarne così a chi non è sardo” -dice ancora.
Ad esempio “s’improddu” è il suo ricettario in cui le ricette di famiglia e le storie sarde s’incontrano, intrecciandosi e aggrovigliandosi in una vicenda narrativa senza fine.
E allora annuisco a Daniela: che ho capito bene che un ‘s’improddu’ ce l’ho anche io che non sono sarda. Un ‘s’improddu’ è esattamente quello che faccio quando metto nel mio calderone tutto quello che ho a portata di mano: un pan di zucchero con una ciambella fritta; il mare di Masua con la miniera di Porto Flavia; i cefali giganti di Tharros con i giganti millenari di Cabras. Insomma tutto è un s’improddu, come tutto a Carloforte è tonno: ventresca, buzzonaglia, tonnarello tutti nella stessa entità suprema di tonno. Il tonno sta al s’improddu insomma come il s’improddu sta me.
E sì che se le cose stanno così anch’io nel mio piccolo sono sicuramente un s’improddu: un miscuglio di cose e parole dette di corsa anche se a dirle sono io, la più immobile di tutti i miei compagni di viaggio, ferma come un punto fermo, come un soprammobile che non si muove, se non in rari momenti in cui appaio così assorta da dare l’idea che, con la forza del pensiero, io stia addirittura scrivendo.
Ma il punto è un altro: il punto è che per qualunque “s’improddu” io stia scrivendo, foss’anche nei rari momenti in cui appaio assorta, ci sarà sempre una lettura in cui, chi legge, potrà scegliere se è il caso di districarsi o restare impigliati per sempre.
E io, da parte mia, ci sto ancora pensando.
Forse da quando il pensiero delle ciambelle fritte, mi ha abbandonato.
E sì che hai ragione.
Tu sei sicuramente il mio “s’improddu” preferito. E anche se ho dovuto aspettare un viaggio in Sardegna e un suggerimento per Carloforte affinchè arrivasse tra noi due, amiche, questo termine sardo a definirti, sono felicissima di riconoscermi nel lettore che rimane imbrigliato a vita tra i tuoi sorrisi, i tuoi racconti, le tue ricette e tutto quel miscuglio bellissimo e ricco di cose, attimi e sensazioni che sei e provochi e che non basterebbe l’Iliade intera a raccontarle tutte.
E quanto il naufragar m’è dolce in questo s’improddu!!
Debora cara e allora che il “s’improddu” lo diventi!:-) E cioè così fine a se stesso, come a noi più piace e se ne vada pure ‘a braccio’ senza schemi e brogliacci dal pasticcio linguistico a quelli che escono dal forno che come sai a noi piacciono di più!E adesso mi metto in attesa di un ‘s’improddu’ che sa di Grecia… 😉
Caspita Laura…ma quanto scrivi bene!!!
Wow
Chiara
Ciao Chiara!Benvenuta 🙂 Mi fa piacere sapere che il ‘s’improddu’ sia di tuo gradimento 🙂 commenti come il tuo sono un bello stimolo per il filo del mio discorso!A presto!;-)
Ti ho letta tutta di un fiato, tanta era la voglia di tornare a leggere i tuoi racconti. Questo post fa respirare e chiudere gli occhi sognando di essere lì. Posso quasi sentire il rumore del mare. Sento addosso la voglia di partire per la vacanza che non ho fatto. Sono un po’ triste perchè è stato un anno difficoltoso che ci ha portato alla decisione di rimanere vicino casa per le ferie estive. Va beh, poteva andare peggio, ma il problema è che una come me, irrequieta e sempre affamata del bello del mondo, non può stare troppo tempo immobile, senza vedere cose nuove, senza documentarmi, senza assaggiare, senza vedere. Però il tuo post e le tue parole hanno curato in parte la mia anima (un po’) tormentata, è stato un balsamo per i sensi. E comunque si, s’improddu io lo capisco bene anche io!
Sono anni, esattamente tre, che chiedo ad Andrea di visitare il lato ovest della Sardegna, partendo da Alghero e scendendo fino a Carloforte. QUINDI, direi di fargli leggere e ammirare il tuo post!
Grazie cara Laura.
Ci vediamo a settembre in quel di Roma
Cara Francesca 🙂 mi dispiace che non tu non sia riuscita a vivere la tua estate come volevi, ma sono felice se il mio racconto riuscirà ad orientare la vostra prossima meta!;-) Comunque preparati, Roma sa riempire gli occhi fino a non poterne più e io ti prometto che non trascureremo nulla e tornerai a casa sazia come dopo un bacchetto ricco di assaggi!;-) Ti aspetto!
Quanta bellezza!
Giulia grazie!!!:-) Non sai che piacere averti qui, benvenuta!:-)
sì ma le ciambelle fritte si trovano ovunque tranne che a casa mia sgrunt ❤️
Noooo!Ma Elisabetta dobbiamo studiare un piano per convogliare tutte le ciambelle che si trovano ovunque, verso casa tua!!!Io ci penso un po’ su!;-)
G entile e affascinante senora Laura. Affascinante nell’aspetto, adescante nei modi e intrigante nel raccontare. Voglio ringrazirti per questo racconto e per e immagini stupende che ci fanno dimenticare Ogni bruttura, per inneggiare alla pura belezza di questo paradiso. Grazie tesò, Ti meriti proprio uno dei miei abbracci più affettuosi e stritoanti !
Eccola ma mia scrittrice preferita e amica di penna del cuore!Prima o poi arriverà un post dedicato tutto a noi, ai racconti della cascina e alla nostra corrispondenza quando il tempo e la distanza ci regalavano la trepidante attesa dell’arrivo del postino 🙂 Grazie a te cara Renata, i tuoi abbracci stritolanti sono adorabili!
Cara Laura,
questo post è di una bellezza che fa male….
Ti abbraccio e rispondo al tuo sorriso dell` ultima foto!
Ulica 🙂
Cara cara Ulica,
il tuo commento è la prova che la retorica in fondo piace anche a me quando mi è rivolta!!!:-) Ma in ogni caso tu ne fai un uso così personale e intelligente da ribaltarne il più comune luogo comune!Ti adoro e continuo a sorriderti!;-)
Le tue foto e le tue parole sono sempre una carezza per l’anima…stupende! 🙂
Io non so perché i tuoi commenti restano sempre impigliati in questo ‘cervellone’ inaffidabile di word press che mi toglie il piacere di leggerti all’istante!Fortunatamente riesco sempre a trovarti e questo mi fa un gran piacere ogni volta!Grazie Ilaria e approfitto di questo ‘spazio’ per augurarti un bel viaggio nella tua bella casa virtuale da poco ‘rinnovata’ 🙂 certi traslochi secondo me regalano un bell’entusiasmo 🙂 Un bacio!
Pensare che ero tornata dal Salento e che credevo di aver finito le vacanze, poi arrivo qui e per un attimo che mi pare infinito (magia delle parole quando ti tengono imbrigliato e ti fanno perdere la nozione di qualunque cosa, non solo del tempo) mi riscopro nuovamente in vacanza.
E non so com’è, ma non ho mai fretta di finire, di arrivare all’ultima parola. E non so com’è, ma non sempre trovo qualcosa di intelligente da dire. Come in questo caso. Non fosse che poi oltre alle parole ho visto quei tuoi ritratti che congelano stati d’animo che interpreto a modo mio e niente, d’improvviso la mia capacità di tacere dopo aver letto, la perdo.
Perché quei sorrisi, quello sguardo, quei capelli, quell’essenza in movimento mi smuovono troppi sentimenti perché io taccia.
E così tra spiagge, conchiglie, bacche e sorrisi, mi porto a casa oggi quanto ci si può portare da un viaggio, che poco importa se è stato virtuale. Breve e intenso!
Sono molte le affinità che io e te abbiamo quando scriviamo: ecco la prima è assolutamente la generosità di parole 🙂 mi piacciono i post che raccontano e mi piacciono i commenti, come il tuo, che confidano parola per parola ogni pensiero senza tralasciarne proprio nessuno. Ecco è questa la generosità che mi piace e in cui mi ritrovo di più, cara Rebecca 🙂 Sono contenta che i miei sorrisi ti abbiamo spinta a scrivere e chiacchierare con me 🙂 esattamente come le tue belle foto l’altro giorno hanno liberato la mia esultazione!Brava Rebecca, anche i tuoi colori sono un bel viaggio nella tua cucina!;-)
leggerti è come perdersi, come rimanere impigliati nelle tue parole, mi doni un gran senso di pace, renderesti meraviglioso anche il posto più brutto sulla terra. Sarà che adoro le vacanze selvagge, le spiagge deserte, le sorprese della natura… sarà per questo che rimango rapita da questo raccoto. Le tue foto poi hanno quel qualcosa che mi colpisce sempre!!
Tiziana grazie!!!:-) Questo spazio ultimamente sta soddisfacendo soprattutto la mia voglia di scrivere rispetto a quella di mangiare. E trovare persone che lo apprezzano dedicandomi il loro tempo nella lettura, mi riempie di felicità oltre che di gratitudine infinita! Io che sono sempre in lotta con il tempo so quanto sia prezioso quello di chi si ferma e decide di lasciare traccia del suo passaggio con un commento!Grazie soprattutto per il tuo affetto che sento vicinissimo sempre!:-) Ti abbraccio!
a volte anche le persone che non conosci le senti, non si sa come, vicine. Io ricordo ancora la prima volta che sono entrata qui, mi piacerebbe pure passarci più spesso.. ma pensavo… dovresti scrivere un bel libro 😉 chissà.. ci avrai pensato!!!
delle volte mi capita… di pensarci, ma poi un istinto forte e contrario mi porta a ripensarci… e questo circolo ‘virtuoso’ che trova complici pigrizia e anarchia di intenti determina che questo ‘mezzo’ semiserio sia forse più adatto a rispecchiare pensieri e parole semiserie senza possibilità di resurrezione alcuna 🙂
Grazie mille Tiziana, questo tuo pensiero mi fa sentire un po’ fanatica e civetta, una cosa che di tanto in tanto mi piace concedermi come le ciambelle fritte!;-)
Non so bene come utilizzarlo-verbo, aggettivo, nome- ma io nel tuo “s’improddu ci sono rimasta impigliata bene bene. Non so se era quello che volevi, ma sappi che ci sono dentro fino al collo. Prendo una boccata d’aria, carica di salmastro e belle parole, lontana dalla monotonia dei miei post scritti in modo banale affinché la traduzione non diventi un secondo lavoro. Pensa che nei giorni scorsi dicevo al mio marito – il canadese- dobbiamo andare in Sardegna il prossimo anno, oggi mi sono definitivamente convinta.
Cara Margherita i tuoi post non sono banali, il piacere di seguirti ha riabilitato il mio francese un po’ in disuso ( che non è una bella cosa) e se la vuoi sapere tutta: io sono rimasta impigliata nel tuo blog, come in ‘s’improddu’ speciale, il giorno in cui un tuo post è cominciato così “j’aime mon mari” e a seguire c’era una splendida torta al cioccolato pegno d’amore della più bella delle dichiarazioni 🙂 ecco e mi sei piaciuta subito e da quel giorno mi sono idealmente trasferita in Canada e non ti/vi perdo di vista neanche un minuto.
Cara Laura, a volte “le vite degli altri” ci restituiscono un pezzo sopito di noi o il ricordo di un sogno o un desiderio per il futuro. A volte tutte queste cose insieme e allora si fa anche un po’ fatica a esprimerlo. Così la Sardegna e la gran parte dei luoghi attraversati dai tuoi occhi e dal tuo cuore è ricordo d’infanzia (ho un nonno cagliaritano acquisito grazie a una nonna vedova avvenente in vacanza a Montecatini), è ricordo di una vacanza fuori stagione di non molti anni fa, scheggia di uno spirito avventuriero momentaneamente a riposo, colori di mare e sabbia come mi appaiono in sogno, desiderio di immobilità e scrittura di fronte a sipari entusiasmanti e…non so quanto altro ancora…
E il tuo sorriso poi, il tuo sorriso è tutto il bene e il bello del mondo!
Vale ma quello ‘spirito avventuriero’ di cui parli non è sopito, ha solo ceduto momentaneamente il posto ad uno spirito ‘guerriero’ 🙂 quello che io ho ritrovato poco tempo fa nel tuo sguardo!;-) Quanto alle nostre vite, che abbiano un crocevia e anzi più linee di incontro senza mai perdersi di vista anche quando corrono parallele, questa per me è la più autentica dimostrazione di amicizia bella sincera e spassionata che c’è!Un bacio grande da noi a te, amica!;-)
Ma quanto sei bella! Quanto sono romantiche le tue fotografie! Grazie per avermi fatto conoscere la Sardegna
leggendo quello che hai scritto magistralmente. racconti così bene le tue esperienze con la spontaneità che ti contraddistingue….e la chiarezza che ho sempre la sensazione di averle vissute con te