“Egó katalavéno hellinika” – ho detto a mio marito, appena arrivati al porto di Ancona. E cioè “io capisco il greco”.
C’è euforia nell’aria, nella mia voce e nell’attesa di imbarcarci e sbarcare in Grecia.
Insisto: “Katalavéno hellinika…” E “ligó ligó” – aggiungo ma solo per non sembrare superba: “… poco poco”. Ad ogni modo, mi sento sicura, so addirittura cosa significa “camillopardo”.
“Pensi ne incontreremo? … di giraffe?” – mi chiede mio marito.
Ma non è questo il punto. Il punto è che quest’anno “katalavéno hellinika” più del solito : più di tre anni fa in Messenia e più dell’anno scorso quando ero pronta a salpare per la Grecia, se la ‘guerra dei gamberi’ non mi avesse richiamata in patria e poi alle armi.
Così eccomi quest’anno: prima sbarco sul continente, poi in Eubea e poi ancora a Skyros e quello che troviamo in realtà è un‘attrazione che da queste parti tutti chiamano più comunemente ‘cavallo’.
Nulla di nuovo, ma si tratta di un cavallo ‘micros’ e cioè piccolo piccolo pur non essendo un pony.
È una particolarità del luogo che non mi consente di parlare di camillopardi veri e propri. Almeno per il momento.
L’isola appartiene, a modo suo, al gruppo delle Sporadi anche se non è assimilabile per turismo e caratteristiche geografiche alle più note Skiatos, Skopelos e Alonissos.
Skyros è un mondo a parte: schiva e poco frequentata è visitata solo dai greci di Atene, da una famiglia simpaticissima di milanesi e da noi. Siamo in agosto e questo rende l’idea di quello che esattamente stavo cercando, camillopardo a parte.
“Attenta allo squalo bianco!”
Così: “Tranquillo!” – dico a mio padre, al telefono, e lo rassicuro sul fatto che quest’anno katalavéno hellinika più del solito, anche se tanto lui tranquillo non lo è mai, soprattutto quando io parto.
E infatti mi dice sempre la stessa cosa che dice esattamente dal millenovencentonovantatre:
“Stai attenta allo squalo bianco!”
Mio padre è così: lui non sa dire ‘buon viaggio’. Lui preferisce mettermi in guardia sempre dalla stessa possibilità di pericolo: uno squalo bianco che dall’Atlantico arriva nel Mediterraneo sempre quando io vado in vacanza.
“Ma sarà sempre lo stesso?” Gli ho chiesto questa volta, per capire almeno se si tratta di quello del millenovencentonovantatré, arrivato nel Mediterraneo lo stesso giorno in cui io arrivavo per la prima volta a Gallipoli.
Ai tempi io avevo 18 anni e da allora uno squalo bianco c’è e infesta sempre le acque delle mie vacanze.
“Veramente quest’anno ci sarebbe anche una medusa assassina” – mi ha risposto mio padre – “arriva dalle Filippine, ne parla pure il telegiornale delle otto!”
Mio padre e la sua diffidenza in acqua: è la cosa più simile ad una paura che sia riuscito a inculcarmi.
E quindi dopo essere sbarcati tre volte sempre in Grecia e cioè prima sul continente poi sull’Eubea e dopo a Skiros ecco che appena metto un piede in acqua la prima cosa che faccio è guardarla, l’acqua.
Ma per fortuna non avvisto squali bianchi dell’Atlantico, né meduse assassine delle Filippine, piuttosto un incurante calamaro greco.
Ma proprio un calamaro gigante, e come si dice ‘vivo e vegeto’, che passeggia sul fondo del mare in punta di tentacoli come se io non ci fossi.
Ecco cosa succede di bello a Skiros, l’isola più visitata dai greci di Atene, da una famiglia simpaticissima di milanesi e noi. Succede che si avvistano calamari giganti più facilmente di squali, meduse e anche di camillopardi.
Tiro un sospiro di sollievo: è solo l’inizio di una bella vacanza.
La verità però è che questa vacanza è cominciata molto tempo prima di sbarcare a Skiros.
A Kimy, ad esempio.
Quando ci imbarchiamo di notte, nonostante il sonno e il freddo, resto affacciata sul ponte tutto il tempo della traversata. Non è un caso, più che altro un’abitudine.
Mentre mi trasformo in una statua di sale, guardo il mare ‘nero’ sperando di avvistare una sirena tra i flutti. La verità è che ci spero sempre da quando ho letto che anche Cristoforo Colombo ne avvistó una mentre, un po’ fuori rotta e nell’Atlantico, cercava invano le Indie Orientali.
Éna thio tría …
“Ma cosa ci faceva una sirena nell’Atlantico?” Penso mentre ripasso i numeri da uno a dieci.
Ho sempre immaginato le sirene tra Scilla e Cariddi come diceva Omero, ma è possibile pensare che nei secoli qualcosa sia cambiato e magari tra flutti e correnti varie le sirene abbiano lasciato il posto agli squali e viceversa.
Téssera pénde éxi
E dal mare comincio a sentire un canto. Ma non il canto di una sirena metà donna metà pesce, ma quello della sirena del ponte sulla nave.
Credo si tratti addirittura del Sirtaki di Zorba.
Quindi forse siamo arrivati a destinazione : è questo infatti il modo in cui il capitano da il benvenuto ad ogni sbarco, anche se sono ormai le due di mattina e il porto di Linaria dorme a parte Zorba e noi.
Októ enéa déka e tutti giù per terra. Siamo appena sbarcati a Skiros.
Ovunque c’è mare, c’è estate
Ovunque c’è mare, c’è estate: l’ho imparato a quattordici anni in un’età già ribelle, lontano dai miei, e vicino a tutto quello che per me ha sempre contato molto: nonno Osvaldo e nonna Ida di là dalla ferrovia ad un passo dal mare. E poi zia Margherita, zio Davide e zio Gianni e zia Piera: il quadrilatero perfetto. Tutti si spartivano la mia adozione temporanea nell’incrocio di due strade.
E c’era anche Chicca: l’unica in grado di prolungare la mia estate di settimana in settimana, al telefono con mio padre:
“Zio tranquillo, nell’Adriatico non è ancora arrivato lo squalo bianco!” A lei mio padre non è ma riuscito a dire neanche uno dei ‘no’ a cui ero abituata io.
Così restavo al mare, senza troppi ricambi: un costume e i vestiti con cui arrivavo a Pescara.
Lo scopo dei miei era forse scoraggiare una lunga permanenza o forse temprare la mia resistenza a permanere esattamente là dove mi lasciavano con lo stretto necessario. Delle due, oggi sono certa di aver imparato proprio questo.
“Ovunque c’è mare, c’è estate” – lo diceva proprio mio nonno Osvaldo e allora io vado a Skiros, perché voglio indietro proprio un’ estate ribelle in cui resistere e permanere più a lungo possibile : lontano dal tempo del lavoro, dalla vita di città e dall’umore nero.
E ‘lontano dalla guerra’ pare abbia pensato anche Teti, quando scelse Skiros per nascondere un giovane Achille dalla guerra di Troia.
Questa storia mi convince del fatto che Skiros sia perfetta per chiunque voglia allontanarsi da qualcosa. Ecco perché è perfetta anche per me.
Istruzioni per una spiaggia greca
Nessuno può non aver notato che in Italia in un qualunque stabilimento balneare un ombrellone è quasi sempre una proprietà privata: un investimento dell’inverno sull’estate per assicurarsi la certezza di un ombra circolare e sicura, un numero qualunque di sedie, sdraio e lettini, tutti rigorosamente sotto la stessa circonferenza, millimetro più millimetro meno. Guai ad invadere il campo altrui.
Chi decide di indebitarsi in genere punta addirittura al possesso di una palma, che non è una palma vera e propria, ma solo un ombrellone di foglie secche e frange pendenti tutte intorno. Il privilegio sociale è tutto in un’ombra più grande e in quella brezza marina della prima fila che sollecita la permanenza al sole, anche se si è pagata a caro prezzo tutta quella ombra inutile.
Una questione di cultura, certamente, rende in Grecia il concetto di spiaggia un po’ diverso: io ormai l’ho capito da anni, che sono esattamente déka in greco e sempre dieci in italiano.
L’originalità della democrazia, da queste parti, rende una spiaggia, la spiaggia di tutti. Ecco cosa ho trovato anche a Skiros.
E malgrado non esistano stabilimenti balneari, qui tutti gli ombrelloni sono palme e il meltemi refrigera indifferentemente tutte le file in modo imparziale e senza guardare in faccia a nessuno.
In genere si occupa un lettino che è un lettino pubblico e se per sbaglio ci si addormenta sotto l’ombra di un’altro, questo si accomoderà sotto l’ombra di un altro ancora e così via dicendo, senza che nessuno reclami qualcosa di proprio.
Ad un certo punto arriverà un greco a salutarvi con un ‘kaliméra’ o uno ‘yássou’ che non vuole il reso in soldi dell’ombrellone occupato, ma solo la cortesia di una consumazione che con altrettanta cortesia vi porterà fino in spiaggia. Non una cosa per pochi, una cosa per tutti.
E allora io in questi casi mi beo di un ideale sociale che da queste parti non è proprio un’ utopia ma addirittura quotidianità. E nell’euforia ordino sempre un nescafé frappé.
Si tratta di un caffè lungo freddo che i greci si portano in spiaggia e che finiscono di sorseggiare quando arriva il momento di andare via.
Un caffè eterno che si beve “sigà sigà” e senza fretta.
Ho imparato ad ordinarlo con una certa disinvoltura, spiegando come lo preferisco “oki gála” e “oki zàkari”. E cioè senza latte e senza zucchero.
A contatto con questo popolo che fa le cose ancora con spirito di civiltà e rispetto per tutti, finalmente mi rilasso e comincio a dedicarmi a quelle libere occupazioni ‘inutili’ che non servono quasi mai a nessuno a parte me.
Ad esempio scrivo: scrivo mentre guardo il mare, scrivo mentre mangio una koriatika, scrivo mentre un bambino urla in spiaggia.
C’è sempre un bambino che urla in spiaggia: succede in Italia come in Grecia. Si tratta di quella costante che in certe occasioni rende due popoli tanto diversi addirittura simili.
Ad ogni modo io scrivo.
“E cos’è che scrivi” mi chiede la mia omonima milanese che popola l’isola insieme a me e a tutti i greci di Atene.
“Non lo so. Tutto quello che ho da dire” – Ad esempio scrivere che da queste parti non c’è traccia di squali, meduse, nè sirene, ma solo di calamari e anche di oktapodia.
Ecco di polipi, ce n’è un esercito proprio sotto una trincea di sassi sul fondo della spiaggia ad Agios Fokas.
E sono polipi coraggiosi viste le intenzioni pericolose dell’unica taverna in spiaggia.
Dopo il caffè un odore di calamari e polipi arrosto invade sempre la riva e si imbosca fin dentro le mie narici. È un profumo persistente che neanche il meletemi riesce a dileguare, buono come le cose buone e di cui sarebbe un peccato non dire nulla.
Ecco perché scrivo.
E allora giacché ci sono, tra le istruzioni per frequentare una spiaggia greca, annoto anche, e quindi scrivo, che in pieno agosto l’unico modo di godere l’isola è quello di orientarsi su spiaggie sotto vento.
È per questo motivo che ci rassegniamo con estremo piacere e senza rimpianti alle spiagge di Kalamitsa, di Pefko, Agios Fokás e Atzitza.
Si tratta in tutti i casi di piccole baie, dal mare piatto e trasparente.
In ognuna è possibile trovare un piccolo molo, una taverna e un po’ di pace. Non è poca cosa e infatti la famiglia simpaticissima di milanesi che è con noi, oltre a tutti i greci di Atene, dice spesso che è ‘tanta roba’.
Vuoti di memoria
“E scrivi per qualcuno?” mi chiede la mia omonima milanese che popola l’isola insieme a me e a tutti i greci di Atene.
“Più che altro scrivo per i vuoti di memoria”
In famiglia ne soffriamo tutti con discrezione e dignità, ma a parte questo una volta ho letto che anche un grande scrittore ne soffriva e infatti , un bel giorno, ha preso ad annotare tutto, pure quante madelaine inzuppava nel the delle cinque.
È andato avanti così , di tomo in tomo e a ritroso di anno in anno, alla ricerca di tutto quel tempo ‘perduto’ proprio in un vuoto di memoria. Molto probabilmente avrebbe continuato a oltranza, se una morte naturale non si fosse intromessa tra vita e racconto e viceversa.
Un vuoto di memoria veramente caratterizza anche questo popolo, lanciato nella conoscenza teorica e pratica di quasi tutte le lingue europee, esibite con disinvoltura già al primo sguardo.
E infatti, grazie a questo, io sono certa di essere italiana e nient’altro: perché loro mi guardano e mi parlano in italiano.
Un’infallibilità tutta greca quella del riconoscimento di persona e di primo acchitto che non ho mai trovato altrove: a Roma ad esempio, a seconda della stagione, c’è chi mi scambia per giapponese e chi per filippina così io provo ad accontentare tutti, meno che in Grecia.
Qui sono quel che sono, italiana e basta.
Ad ogni modo pur essendo inconfondibilmente italiana, mi ritrovo a coniugare il verbo ‘essere’ in greco antico ad una ragazza greca che non lo conosce affatto. Dice che quel greco lì non serve più a nessuno, neanche ai greci che per primi l’hanno parlato e poi diffuso.
E infatti, esattamente come sento dire spesso in Italia, lo definisce anche lei ‘lingua morta’.
Mi piacerebbe chiederle se è sicura di quello che dice o se si tratta del solito pettegolezzo messo in giro da invidiosi e ingannatori. E invece, piuttosto per compassione e un po’ per simpatia, comincio a riempire il suo vuoto di memoria:
“eimi eisi ei…(io sono, tu sei, egli è…)”
E caso vuole che lei si commuova: forse per l’assurdità della situazione o forse per la nostalgia delle cose perdute. Non lo saprò mai, perché io ignoro il ‘suo’ greco moderno, camillopardo a parte, e lei il ‘suo’ greco antico.
E questa è l’unica possibilità di uno scambio culturale che poteva durare di più se una lingua ‘viva’ non fosse stata dichiarata morta, senza essere mai deceduta veramente.
…in libera
C’è un bisogno di certezza nella scelta di un luogo molto turistico: la necessità di muoversi in ambienti artefatti forse è rassicurante e accontenta l’aspettativa di chi ha fretta di conoscere un posto grazie ad una sintesi dei suoi luoghi più comuni.
Se si va in Grecia con questo spirito ad esempio basterà un po’ di azzurro sulle pareti di una casa, le pale messe in croce di un mulino a vento e una gyros pita nel piatto per sentirsi sicuri di essere arrivati a destinazione.
Ho visto chi con questa convinzione è entrato in una taverna e ha ordinato un piatto di spaghetti considerandolo una specialità del posto. E invece no. Non è Grecia, e pure i greci lo sanno infatti lo chiamano “bisness.”
Ecco perché dieci anni fa siamo diventati viaggiatori in libera.
“In libera”: non si tratta solo di una disposizione mentale ma anche di una particolare modalità di sostare.
In Grecia chi viaggia con un camper o un motoroom puó stabilirsi in piccoli villaggi sul mare popolati solo da locali, evitando di rintanarsi in comunità organizzate di campeggiatori con l’ansia dell’antenna parabolica.
In questi casi quello che succede è che l’unica taverna del posto si rende disponibile all’accoglienza, sotto l’ombra di un eucalipto a patto di onorare la cucina della cuoca.
In realtà essere questo genere di ospite produce una simpatia reciproca che affraterna e culmina quasi sempre con un po’ d’ouzo, prima di andare a dormire e la solita cerimania per buonanotte: “Italicos ellenicos mia faza mia raza”. Italiani e greci, stessa faccia stessa razza.
Così ci si addormenta in libera con il paesaggio più adatto alla notte e con la consapevolezza che ovunque ci si sveglierà si sarà sempre circondati da capre e pecore assolutamente greche.
Non mancherà tutto l’azzurro necessario a sentirsi finalmente in Grecia e la felice sensazione di essere “travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto’.
Io adoro quel film in cui Giancarlo Giannini e Mariangela Melato prima si insultano e poi si amano.
“Bolscevico” gli dice Lei.
“Bottana industriale” le dice Lui.
Ma poi alla fine finiscono allacciati in un insolito destino tutto azzurro e tutto estivo che inizia e finisce purtroppo solo in agosto.
Per arrivare a questa conclusione sono necessari un naufragio e un’isola deserta e, in questo caso, tutto può essere comodamente organizzato prima, anche da casa, proprio come ho fatto io.
“Voglio un’isola deserta” ho detto a mio marito e quello mi ha accontentato su tutto, meno che sul naufragio.
“Selvaggi si, sopravvissuti no.” – è stata la condizio sine qua non.
Monasteri sull’aria
“E chi ti legge?”
Mi chiede la mia omonima milanese che popola l’isola insieme a me e a tutti i greci di Atene.
E io in effetti vorrei tanto saperlo: nessuno o forse qualcuno c’è.
Ma deve essere qualcuno all’antica e cioè qualcuno che quando dice di leggere legge veramente.
Ché oggi tutti dicono di leggere e di non fare altro nella vita che leggere e leggere tanto e di tutto: libri, riviste, fumetti e anche i blog.
Ma io diffido sempre. E diffido proprio di quest’ultima generazione di lettori digitali per i quali una nuova generazione di scrittori digitali addirittura scrive.
A questi ultimi Google in persona e senza peli sulla lingua ricorda che ”è illeggibile” tutto ciò che è prolisso e denso di informazioni.
Prolissità, densità. Due aspetti della scrittura sul web che il moderno lettore di tutto: libri, riviste, fumetti e anche blog pare proprio non regga.
Allora io risolvo il problema a monte e scrivo in modalità automatica e gratuita esattamente come chi nella stessa modalità ad esempio decide di leggere veramente o scalare una meteora.
Io ad esempio ne ho scalate sei, di meteore. E l’ho fatto a dispetto della prolissità e della densità dell’impresa in cambio della bellezza di una visuale che cambiava ad ogni altezza raggiunta.
Si tratta di monasteri sull’aria : vere e proprie roccaforti protette dal vuoto e dalla vertigine.
Abitate da chi nei secoli ha saputo popolare la propria solitudine trovando se stesso o frequentando solo chi era disposto a raggiungere una meta poco battuta.
Ecco perché mi piacciono le meteore: non sono solo un luogo, sono una metafora.
Chi fosse interessato a tutta questa bellezza dovrà puntare il dito, o un più tecnologico navigatore, sulla Tessaglia: la regione dal paesaggio più lontano dal mare e al tempo stesso più vicino al cielo che io abbia mai visto.
Quel che resta
Quel che resta non sono solo le sei meteore scalate in Tessaglia ma anche un relitto adagiato sulla spiaggia di Agios Petros, ci dicono i ragazzi della taverna omonima.
E non si tratta dell’ampia spiaggia popolata da nudisti e posidonie, ma di un’altra nascosta e accessibile solo a piedi o sul fuoristrada dell’esercito.
Quando i militari ci offrono un passaggio io guardo in basso come donna onesta e timorata: il rapporto tra me e loro è assolutamente sbilanciato visto che io sono l’unica femmina e loro tutti maschi, io in bikini e loro in uniforme.
Ad ogni modo abbasso lo sguardo e accetto: il passaggio in macchina ci consente di arrivare a destinazione prima del previsto.
Durante il tragitto spero di passare inosservata nascondendomi come una Maddalena impunita sotto i capelli e rinuncio anche a chiedere l’unica cosa che in greco moderno saprei dire benissimo
“Poú íne camillopardo?” E cioè dov’è la giraffa?
Non che le giraffe mi interessino a tal punto ma è l’unico modo che avrei per dimostrare finalmente a qualcuno che “egó katalavéno hellinika” e cioè che io capisco il greco.
Ma in effetti chissà cosa capirebbero loro della mia intenzione di comunicare a tutti i costi?
“Il contesto comunicativo non è adeguato al testo” – diceva la mia professoressa di italiano del liceo. E lo diceva, infatti, intendendo un testo sempre frutto di un contesto che lo accoglie e che soprattutto lo comprende. E se il contesto non è adeguato invece tutto può essere frainteso.
Per cui una donna poco vestita, proveniente da una spiaggia di nudisti e posidonie, seppur ‘nel pieno possesso’ del uso della lingua greca, deve considerare che una ronda di militari in ricognizione non è mai il contesto adeguato in cui mettersi a cercare giraffe. Così taccio.
E le parole utili invece riaffiorano fortunatamente non appena arriviamo a destinazione “Efkaristos poli” – ringraziamo e ci congediamo da loro.
È ferragosto, in Italia le spiagge saranno sicuramente sovrappopolate e invece ad Agios Petros, per evitare forse i nudisti forse le poseidonie, le spiagge sono addirittura deserte come quella in cui il relitto di un vecchio peschereccio vive ormai una vita nuova adagiato proprio sulla riva.
La vegetazione è così rigogliosa da far sembrare l’acqua uno smeraldo o forse viceversa, ad ogni modo è tutto incredibilmente bello e silenzioso.
Con la sensazione di profanare la pace del posto scatto una foto da inviare a mio fratello sperando di convincerlo una buona volta ad unirsi al nostro equipaggio, magari l’anno prossimo.
Anche lui è in vacanza, anche lui è ‘in libera’. Ci alterniamo nello scambio di foto e di spiagge conquistate quest’anno: lui nel Salento e io a Skiros, se non fosse che ad un certo punto quello che vedo nella sua galleria è proprio la testa di un Camillopardo! Non ci credo, un camillopardo nel Salento!
Una “fava”, per favore!
Così, con una breve ricostruzione storica, capisco che molte cose sono cambiate dal millenovecentonovantatre: quando uno squalo bianco entrava nel mediterraneo per soprassedere al vuoto lasciato dalle sirene avvistate nell’Atlantico da Cristoforo Colombo.
A quel tempo quasi sicuramente un solo calamaro gigante già si aggirava indisturbato nella baia di pefkos e un esercito di octapodia presidiava già la baia di Aghios Focas sotto una trincea di sassi.
Ma di meduse assassine provenienti dalle Filippine ancora nessuna traccia forse perché i turchi ne facevano razzia ovunque e quindi deve essere stato quello il momento in cui anche i camillopardi se la sono data a gambe levate ritirandosi magari in Salento, piuttosto che in Grecia.
A questo punto però senza camillopardi a disposizione quello che succede è che perdo la parola.
E cioè l’unica parola di scambio in mio possesso e che mi permetterebbe di dimostrare a qualcuno che “egó katalavéno ellenica”.
Fortuna vuole che una parola nuova si insedia nel mio vocabolario d’urgenza. E si tratta di una parola che a Roma mi ha creato spesso non pochi problemi di comunicazione, ma che qui invece è addirittura una parola di culto, soprattutto per la cucina tipica del posto.
“Éna fava paracaló!” – “Una fava, per favore!”
Mi piace ordinare la cena in greco: i nomi dei piatti mi aiutano e anche i numeri da uno a dieci, anche se io non vado mai oltre l’uno. E così comincio:
Éna ladopita, éna koriatica, éna oktapodia, éna tzatziki e soprattutto éna fava.
In greco antico di direbbe ‘psfava’ ma qui tutti dicono ‘fava’ e allora la chiamo anche io così: con la certezza che a Skiros il contesto comunicativo è adeguato e privo di fraintendimenti.
Ecco perché non appena il bel cameriere di Agios Petros, più turco che greco, si avvicina io impunita proprio come una Maddalena chiedo “Ena fava parakalo!”
E lui mi porta esattamente quello che voglio e cioè una purea di cicerchie gialle condita con limone, olive e cipolle rosse. Si tratta di un humus di legumi che i greci preferiscono chiamare ‘insalata’ e che è perfetta da accompagnare al pane fritto.
Poù ìne camillopardo?
“E quale sarà la prossima ricetta di cui scriverai?” – mi chiede la mia omonima milanese che popola l’isola insieme a me e a tutti i greci di Atene.
E io so già che sulla ricetta della “fava” non potrò tacere a lungo, anche perché un food blog è il contesto comunicativo più adatto a farlo, sebbene questo post risulti già così denso e così prolisso che nessuno andrebbe oltre, neanche tutti quelli che dicono di leggere e di non fare altro nella vita che leggere e leggere tanto e di tutto: libri, riviste, fumetti e anche i blog.
Ma io diffido sempre. E diffido proprio di quest’ultima generazione di lettori digitali per i quali una nuova generazione di scrittori digitali addirittura scrive.
E infatti a questi ultimi Google in persona e senza peli sulla lingua ricorda che ”è illeggibile” tutto ciò che è prolisso e denso di informazioni.
Allora io risolvo il problema a monte e scrivo in modalità automatica e gratuita esattamente come chi, nella stessa modalità ad esempio decide di leggere, veramente, o di cercare un camillopardo a vuoto, proprio là dove si può trovare tutto il resto.
Ciao Laura.
Bentornata…in merito alle cose che scrivi tu, sono sicuramente una delle persone di cui puoi permetterti di non diffidare. Sia pure in due puntate, ti ho letta con immenso piacere…anche in questa lunga “maratona” (mai parola fu più appropriata :-)) greca . Sempre rapita dalla tua scrittura…un abbraccio fortissimo
Chiara che bello!E non ti nascondo che l’idea della lettura a puntate mi piace molto, perché mi offre proprio la sensazione che cerco: e cioè quella di ‘stare’ più a lungo possibile in compagnia di chi ha voglia di stare con me :-). Quando scrivo un post in genere mi rifiuto di essere strategica, così quando il sistema di wp mi dice che sono ‘illeggibile’ non correggo mai il tiro, piuttosto mi viene voglia di sfidare questa strana provocazione del web e lancio la mia proposta a dispetto di tutto. Ti abbraccio fortissimo anche io felice di averti tra quelle persone per le quali è sempre un piacere scrivere e scrivere tanto!:-)
Non so bene se sia stata la nostalgia della nostra amata Grecia che sapevo di poter rivedere nelle tue parole o la coscienza di saperti densa e promossa di parole che vanno lette….fatto sta, che dritta e leggera sono giunta fino alla fine.
Sempre con immenso piacere
ovviamente era prolissa e non promossa. 😉
Ma ci vediamo? Perché io come faccio a scrivere qui tutto quello che mi hai fatto sentire, ricordare e pensare con questo lungo racconto? Che poi, alla fine, è esattamente tutto quello che pensi tu, quindi forse non serve che lo dica.
Un viaggio bellissimo, così come il tuo racconto. Anche io volevo un’isola deserta, ma ho preso la strada più semplice e ho scelto Creta. Ma forse il periodo sarà quello giusto. Chissà, te lo dico quando torno.
Grazie per le tue parole. Meno male che scrivi.
Un abbraccio,
Alice
Si Alice dimmelo quando torni e rivediamoci soprattutto!Io penso che Creta a settembre sia meravigliosa e deserta quanto basta per stare bene in mezzo ai greci e nessun altro!:-) Diciamo che le mie ferie obbligate in agosto necessitavano di un ‘naufragio’ in un posto più sperduto Ma a parte questo grazie a te per il tuo incoraggiamento!Ti abbraccio!
Ho sentito l’odore del mare…
Mia bella, dolcissima Laura di sole e sorrisi vestita, mi hai riempito il cuore e lo stomaco di grecitudine. E tu non potevi certo saperlo, di questo mio bisogno, di questa mia fame.
Non sono certa di non essere “una Google in persona”. Me lo sono chiesta molte volte e mentre cerco di venirne a capo e di comprenderlo, compro un sacco di libri e leggo l’inizio, la fine e le pagine che stanno nel mezzo, disperse come le giraffe in fuga verso il Salento. Compro libri che rimangono lì sullo scaffale, con la loro rassicurante presenza.
Ma ti assicuro che quando mi prendo i miei minuti per leggere, per bere le parole, il posto che so non mi deluderà è proprio questo tuo spazio.
Qui ho trovato la Grecia di cui volevo sapere. Dimensioni e densità giuste per essere contenute dal mio cuore. E ho sorriso infinitamente mentre cercavo di intravvedere le tue giraffe in fuga. Ho pensato… hai visto mai che incontrano la Penelope dentro di me che vaga in cerca di Itaca, mentre Odisseo seduto a tessere, osserva incredulo la scena di una impossibile verità: Penelope che doma le giraffe con l’ambizione di farne mezzo di trasporto!
Le tue giraffe cercavano il Salento ed io dal Salento cercavo disperatamente un qualunque approdo greco. Ad un certo punto non mi importava più se via mare o arrivando in volo come “anatra”.
Ma sono certa che a metà strada, su non so quale onda di preciso, schivando squali bianchi e meduse assassine, ci siamo ritrovate. Se non altro, io ho trovato te. E mi rallegra questo fatto, più di quanto mi sia possibile dirlo a parole.
Sei una grande ispirazione per me Laura e non lo dico con leggerezza o a chicchessia!
Ed io ora, a costo di essere equivocata fuori dal contesto comunicativo, aspetto la fava di cui hai parlato.
Un abbraccio
Rebecka cara e credimi se ti dico che di ‘grecitudine’, mista a gratitudine, mi hanno riempito il cuore anche le tue parole, in un commento che è epico e pindarico proprio come quelli che piacciono a me 🙂
In realtà quello che più mi piace di questa scena è che tu, Penelope cara, ti sia messa in viaggio per raggiungere proprio me: senza badare a squali bianchi e meduse assassine e da tutti i soliti luoghi comuni da cui delle volte è difficile scampare. Io direi che con una persona come te si può parlare di tutto a dispetto dell’equivoco e del contesto comunicativo più o meno consentito e, a maggior ragione, di ‘fava’ che nella nostra amata Grecia è un ‘concetto alimentare’. 🙂 Ti abbraccio fortissimo anche io e grazie sempre!